Poema de Gabriele D’Annunzio en el año de la muerte de Nietzsche

Home #19 - Nietzsche Poema de Gabriele D’Annunzio en el año de la muerte de Nietzsche

Extraído de

http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/3025/955736.pdf?sequence=1

Scuola Dottorale di Ateneo

Graduate School

Dottorato di ricerca

in Italianistica e filologia classico-medievale

 

Ciclo XXV

Anno di discussione 2013

 

Elettra di Gabriele d’Annunzio; edizione critica

Settore scientifico 

(pp. 144-153)

 

Per la morte di un distruttore

 

F.N. XXV AGOSTO MCM

 

 
Disse al cuore dell’uomo: «Quando
tu fervi, o cuore, largo e pieno,
simile alla grande fiumana,
beneficio e periglio dei lidi,
quivi la tua virtù s’inizia».
Disse: «Nel deserto estremo,
con risa e con gridi,
danzando e cantando,
irrompe il mio desiderio e irraggia
la sua letizia.
Nacque su le montagne eterne
la mia saggezza inumana,
su le montagne che stanno
vergini e sole
nel meriggio sereno,
nell’ardore solenne;
pregna divenne
su i culmini prossimi al Sole
la mia virtù selvaggia;
partorì su gli aridi macigni
il più giovine de’ suoi figli».

Disse: «Nel deserto estremo,
nella fulva sabbia,
sotto la rabbia
del sole, duro, violento,
silenzioso,
avido di conoscenza come
il leone di nutrimento,
senza dio, senza nome,
senza spavento
e spaventoso,
con la volontà del leone,
con la fame del leone,
famelico, sitibondo,
infaticabile, padrone
del deserto e del mondo
fui, e delle mie forze segrete.
Inesprimibile e senza nome
quel che fu il tormento
il giubilo dell’anima mia,
quel che fu la fame e la sete
dell’anima mia!».

Disse: «Le fonti attossicate,
i fuochi graveolenti,
i sogni corrotti
e i vermi nel pane della vita
son necessarii?
Non io la mia vita
mendicai a frusto a frusto,
ma esso il mio disgusto
mi diede le forze e l’ale
che presentivano le sorgenti
dei fiumi solitarii.
E per giorni e per notti,
di monte in monte,
oltre il bene, oltre il male,
senza sosta, senza sonno,
il mio volo robusto
cercò cercò la fonte
della gioia; e la trovò in sommo.
Avido nelle acque canore
s’abbeverò il mio cuore
ove arde la mia grande estate.

Il mio cuore, ove splende
l’estate, s’abbeverò nell’acque
gelide e n’ebbe gioia infinita.
Tutta la mia vita
fu un’alta speranza.
O miei fratelli, dove siete?
Accorrete, accorrete
alla gioia che v’attende.
Troppo si piacque
della pianura
la vostra virtù. Non è sete
quella ch’estinguono i ruscelli
garruli, quella che alla cisterna
empie l’otro e vi s’indugia.
Uditemi, o miei fratelli!
Poi ch’io bevvi alla fonte apparite,
tutta la mia vita
fu una speranza eterna,
tutti i miei pensieri
per mille varchi e mille sentieri
migrarono alla terra futura.

Oh venite, fratelli in angoscia,
perché io vi mostri
la sorgente ignota
nell’alba che si leva!
Scaturisce ella con troppa
veemenza e scroscia
così che la coppa
si riempie e si vuota.
V’insegnerò come si beva.
Venite a me! Lasciate gli egri
e i vili alla bassura.
Venite perché io vi rallegri,
fratelli, ne’ cuori vostri.
Grande sarà l’estate su i monti
con gelide fonti
e silenzio infinito.
L’aquile ci porteranno il cibo
con i lor curvi rostri.
Vivremo come i vènti forti.
Negli occhi profondi
avremo la terra futura.

Venite a me col vostro amore
che non soccombe,
con la vostra sete
che non si placa, quanti siete
uomini che v’accresceste
di conoscimento e di dolore,
che la vita incideste
con la vostra vita dura,
che osaste abbattere le tombe
perché taluno risorgesse,
che seguiste il più aspro cammino
a cercar le vostre anime stesse,
che chiamaste il più crudo nemico
per guerreggiar la vostra guerra,
che santificaste nei perigli
le vostre inesorabili sorti,
venite a me su l’ultima altura!
Vivremo come i vènti forti.
Saremo fedeli alla terra,
fedeli alla terra dei figli,
fedeli alla terra futura».

Disse: «Il mio lavoro
fu la guerra, la mia pace
fu la vittoria.
La mia volontà fu sospesa
sul mio capo come una legge,
come una gloria,
come un nimbo d’oro.
In ogni impresa
il mio pensiere
fu la mia sola face.
Sdegnai di bere
dove bevve il gregge,
sdegnai di rimirare il cielo
oscurato dalla cava nube;
perch’io sapea che nella rupe
aerea tu eri, o sorgente
pura, o sorella dell’aria,
io sapea l’erta necessaria
per rimirarti, o cielo
pudico e ardente,
libertà, serenità d’oro.

O cielo su la mia testa
nuda, giocondo
abisso, gorgo
di luce, festa
del sole, o cielo senza
nube e senza tuono,
ecco la mia innocenza,
ecco che io risorgo
verso di te mondo
di ogni tabe e di ogni lebbra,
ecco che io sono
colui che afferma
colui che benedice;
e per questo lottai su la terra,
per questo ebbi tanta guerra
tante armi tante ire:
per aver libere mani,
o serenità liberatrice,
miracolo d’oro sul mondo,
per avere un giorno le mani
libere a benedire!

E così benedico:
«Essere sopra ogni cosa
come il suo proprio cielo,
come il suo volubile tetto,
come la sua cerulea volta
e l’eterna sua pace». E felice
colui che benedice
così! Però che la sorgente
dell’eternità sia
il battesimale
fonte di tutte le cose,
oltre il bene, oltre il male;
e il bene e il male sien ombre
fuggitive; e su tutte le cose
unico si spanda il ridente
cielo delle sorti
misteriose;
e sia la terra una divina
tavola al divino
gioco degli iddii che tu porti,
Eternità, per colui che t’ama.

Però che io sia colui che t’ama,
o Eternità, colui che brama
il tuo anello eternale,
colui che vuole
da te il nuziale
anello del ritorno
e del divenire,
colui che ti chiama
al suo desire
ed al suo giorno,
o Eternità, per teco
generar la sua prole,
colui che fu cieco
per la possa del tuo sole
che a lungo ei mirò fiso,
colui che alfine ha un riso
vasto come un baleno
creatore sul mondo,
colui che ama il tuo seno,
il tuo seno profondo,
o Eternità, colui che t’ama!».

Così parlava l’Asceta.
Questa parola disse
colui che terribilmente visse
per la sua terribile mèta.
Così parlava
su la plebe schiava
su la moltitudine morta
colui che errò lunghi anni
pei labirinti fallaci,
per tutte le ambagi
dei secolari inganni,
e ritrovò la porta
antica della Vita bella.
Disse: «Insegno al cuore umano
una volontà novella».
Disse: «Insegno all’uomo non l’amore
del prossimo ma del più lontano,
del vertice ch’ei s’elegge.
Sia l’uomo la sua propria stella,
sia la sua legge e il vendicatore
della sua legge».

E il fiato impuro dell’uomo
lo soffocava; lo soffocava
il lezzo della bestia
inferma e vile.
Ed egli andava andava andava,
cupo ed ostile,
nell’aria gravida di tempesta,
emulo del lampo e del tuono,
ebro della sua guerra,
splendido della sua virtù, irto
de’ suoi pensieri, tra i sogni grami
di mille e mille anime stanche.
E disse: «Il tuo spirto
e la tua virtù infiammino anche
la tua agonia, come il fuoco
del tramonto infiamma la terra.
Così voglio io morire
perché a causa di me tu ami,
o fratello, sempre più la terra;
così voglio io reddire
luminoso alla gran madre terra».

Ahi che dal Fato,
cui d’evento in evento
amò di così gagliardo
amore, non gli fu dato
morire nel combattimento,
morire alzato e pronto
al più difficile varco,
nell’atto di tendere l’arco
lucido ponderoso
per l’ultimo dardo,
il grande arco d’Ulisse,
quello dal nervo che garrisce
come la rondine messaggera,
quello che tende sol uno
contro la schiera
innumerevole! Ahi che il notturno
Fato l’oppresse a mezzo dell’opra!
Ed egli stette nell’ombra
senza mutamento,
immoto, vacuo, taciturno
come un cratère spento.

Poi, come l’acqua informe
colma i cratèri
immemori del fuoco pugnace,
la materia eguale
l’agguagliò nell’ombra infinita
e nei silenzii eterni
ove si celano le norme
del ritorno e del divenire,
ove tutte le forme
dell’essere s’aprono in misteri
ineffabili e la morte è vita
e la vita è morte.
O Verità redimita
di quercia, cantami la sua vita
e la sua morte
con la possa delle antiche lire!
Canta pei figli degli Ellèni
il Barbaro enorme
che risollevò gli iddii sereni
dell’Ellade su le vaste porte
dell’Avvenire!

Io lo canterò, io figlio
degli Ellèni, con una ode
ampia, di possente volo;
perché dissi, quando udii la voce
di lui solo io solo,
dal suo esiglio nel mio esiglio,
dissi: «Questi è il mio pari.
Questo duro Barbaro che bevve
una colma tazza dell’ardente
vin campàno ed ebro di dominio
e di libertà corse i mari
armoniosi agognando il suolo
ove l’uomo per la divina
etra incedeva al fianco del dio
ed entrambi erano Ellèni,
questi è il fratel mio.
Salutammo le rosse triremi
nelle acque di Salamina
nutrice di colombe;
portammo una corona alle tombe
di Maratona».

Dissi: «O Vita, egli non sa che vive
su le rive sonore
un figlio della florida stirpe.
Io nasco in ogni alba che si leva.
Io so io so come si beva,
o Vita. E chi t’amò su la terra
con questo furore?
Chi più larghe piaghe
s’ebbe nella tua guerra
e chi ferì con spade
di più sottili tempre?
Chi di te gioì sempre
come s’ei fosse per dipartirsi?
Ah tutti i suoi tirsi
il mio desiderio scosse
verso di te, o Vita
dai mille e mille vólti
a ogni tua apparita,
come un Tìaso di rosse
Tìadi in boschi folti,
tutti i suoi tirsi!

Io nasco in ogni alba che si leva.
Ogni mio risveglio
è come un’improvvisa
nascita nella luce:
attoniti i miei occhi
mirano la luce e il mondo.
Egli non sa come sien pure
le mie pupille, o Vita,
mirando il cielo verecondo.
Egli non sa come trabocchi
il mio cuore, simile alla grande
fiumana. Che m’insegnerà egli,
o Vita? Io so come si danzi
sopra gli abissi e come si rida
quando il periglio è innanzi,
e come si compie sotto il rombo
della tempesta l’opera austera,
e come si combatta con l’ugne
e col rostro, e come si uccida,
e come si tessan le ghirlande
dopo le pugne».

Ma riconobbi i suoi pensieri
fraterni come il navigatore
ansio riconosce i verzieri
d’Italia da lungi all’odore
che gli recano i vènti.
Il tuo sole, il tuo sole,
o Italia, colorò la sua fronte,
maturò la sua saggezza forte,
converse in oro
il ferro delle sue saette.
Il barbaro pellegrino
sotto il tuo cielo alcionio
apprese il canto dal coro
alato delle tue selve aulenti.
O Italia, egli bevve il vino
delle tue vigne ambrosio;
colse il miele de’ tuoi favi meri,
le rose de’ tuoi roseti
gravi di api e di colombe. I piedi
suoi divennero leggeri
su i prati di violette.

La serenità adamantina
che s’inarca su i ghiacciai dell’erme
Alpi placò la sua furia.
Gli proposero enimmi
le rupi che nel mar di Liguria
si protendono come sfingi
coronate di fiori.
Come un novo Erme
senza caducèo
egli portò su la sua spalla
Dioniso infante, nelle Terme
di Caracalla,
nel Fòro, nel Colossèo.
Come Eraclito nel tempio efesio,
egli meditò la sua dottrina
illuminato dagli ori
di San Marco nell’ombra marina.
E il fresco vento etesio
gonfiò la sua vela nei meriggi
d’estate, fra Sorrento e Cuma,
sul golfo ove il Vesuvio fuma.

Quivi, o triste ombra della greca
Antigone, anima profonda
che gli fosti custode
fedele nella notte cieca,
o sorella, quivi reca
il cadavere dell’eroe,
sul golfo lunato e grande
come l’arco ch’egli tese.
Gli alzeremo un tumulo grande,
un’altissima tomba,
là dove le coste
sono più scoscese
e il flutto più rimbomba
nelle caverne più nascoste
con le eterne risposte
alle eterne domande.
Gli daremo ghirlande
d’ulivo selvaggio e, tra le accese
faci, libàmi come all’altare.
Gli canteremo in coro una ode
misurata al respiro del mare.

Canteremo: «Qui dorme,
nella sacra Italia, sul mare
delle Sirene, sul Mare
Nostro, in vista dell’arce cumèa
dove il figlio di Venere Enea
giunse recando i Penati
di Troia ed i Fati
di Roma, qui dorme,
in vista del fuoco distruttore
e creatore
che irrompe dal cuor della Terra,
vegliato dalle antiche Mire
figlie della Notte arbitre sole
della nascita e della morte,
o prole degli Ellèni,
qui dorme, placate le ire
dopo tanta guerra,
il Barbaro enorme
che risollevò gli iddii sereni
dell’Ellade su le vaste porte
dell’Avvenire».

(«Il Giorno, 9 settembre 1900»)